Lui è l’ennesimo talento siculo, testimone e portavoce del concetto che per fare grandi cose ci vuole passione. Dicono che l’esplosione creativa di un talento avvenga solo dopo molteplici e pesanti martiri emotivi. Tanto più hai sofferto tanta più è la “rabbia di emergere”. L’intervista a Marco de Vincenzo.
Come vivevi a Messina prima che il mondo della moda s’impossessasse della tua vita?
Vivevo tranquillamente. Ci stavo bene perché in fondo, a livello umano, avevo tutto a Messina. Gli affetti non mi facevano avvertire la mancanza della parte lavorativa e mi bastava quel poco che la mia città poteva offrirmi. Ma subito dopo il liceo ho scelto di trasferirmi a Roma, perché avevo chiaro il percorso che volevo fare. Mi sono diplomato allo Ied e dopo pochi mesi ho avuto il mio primo lavoro nel settore accessori di Fendi.
Com’è poi avvenuto il salto da dipendente Fendi a designer?
Dopo quasi dieci anni in casa Fendi avevo voglia di portare avanti il settore dell’abbigliamento, che non avevo mai abbandonato del tutto. Ho parlato con la dirigenza che ha cambiato il mio contratto da dipendente a consulente ed a trent’anni ho iniziato il mio progetto, col mio nome. Ho conosciuto molti creativi che una volta inseritisi nell’ambiente degli accessori hanno abbandonato l’idea dell’abbigliamento. Occuparsi degli accessori può ingabbiarti, perché ogni esperienza successiva si direzionerà su quella strada. Per tanto, mi sento di consigliare ai giovani di evitare quest’ambito della moda qualora il loro sogno sia la creazione di vestiti.
Gli accessori portano i maggiori introiti per molte delle grandi maison. Considerando la tua esperienza, la creatività, in quest’ambito, viene sacrificata a favore dell’aspetto commerciale?
Assolutamente no. Mi sono reso conto che il settore accessori di Fendi è uno degli aspetti più sperimentali dell’azienda. Col passare degli anni ho avuto sempre più libertà creativa e sono riuscito anche a crescere professionalmente, diventando l’assistente di Silvia Fendi. Ammetto che almeno inizialmente ho considerato questo lavoro come una strada di passaggio per giungere alla mia meta: l’abbigliamento. È stata una scelta dettata dall’ansia dopo-scuola, che viene quando il telefono non squilla; quindi quando è arrivata quest’occasione l’ ho subito colta. Poi, col tempo, ho visto sulla mia pelle che c’è una forte mole di creatività in questo campo della moda.
Oggi che porti sulle spalle il peso dell’autonomia, quali sono gli aspetti angosciosi del tuo lavoro?
La consapevolezza che ogni collezione potrebbe essere l’ultima. Questa consapevolezza toglie un po’ di freschezza al lavoro. Avverto il peso di vivere sulle montagne russe. È un limbo che personalmente un po’ mi distrugge. Però alla fine da qualche parte le soddisfazioni arrivano e lottando riesco a trovare il modo per sopravvivere. Nel nostro mondo senza la tenacia di credere nel proprio progetto non si arriva da nessuna parte. Dall’esterno tutto sembra molto facile, soprattutto una volta che arrivi a sfilare a Milano. Molti ragazzi mi chiedono di fare stage nella mia azienda, non sapendo che l’ azienda è fatta da me e la mia scrivania. Dietro ad ogni giovane designer c’è una mole mostruosa di lavoro che i giovani non possono nemmeno immaginare.
I giovani ed i concorsi di moda sono “i must to have” delle ultime stagioni. Tu che hai vinto un pò di anni fà “Who’ s on the next?”, il concorso che porta in auge le giovani promesse creative, cosa pensi di queste opportunità?
Sono tantissimi i concorsi di moda in tutto il mondo, molti dei quali danno dei soldi; l’aiuto più concreto che si possa dare secondo me. È vero che ultimamente l’attenzione si è catalizzata tantissimo sui giovani, però quello che non viene dato è un supporto pratico. Intendo dire che sei sempre solo, anche qualora tu abbia bisogno di un consiglio. Non c’è nessuno disponibile ad aiutarti, a districarti tra la marea di problemi che ti trovi ad affrontare, in questo mondo che, infondo, non conosci benissimo, essendo nuovo del settore. Vincendo un concorso del genere magari esplodi a livello di visibilità, ma poi vieni abbandonato in balia delle situazioni. Vieni catapultato in una realtà che ti giudica, in cui non sai muoverti ed in cui per giunta non puoi permetterti di sbagliare. Credo che concorsi del genere dovrebbero almeno facilitarti la produzione di un paio di collezioni.
In questo senso dove vengono più tutelati i giovani?
Per esempio in Inghilterra, dove i nuovi talenti vengono preservati. Vengono aiutati in tutto, dalle sfilate agli uffici stampa, facendo della settimana della moda londinese uno degli eventi più interessanti a livello di novità. Si è praticata una chiusura protezionistica, in cui viene riservato spazio solo ai designer inglesi, privilegiandoli e così riuscendo a farli crescere.
Le tue collezioni sono sempre versatili; spaziano dalle trame più colorate alle tinte più neutre, dai temi geometrici alle fantasie animalier. È stato un tuo obbiettivo poter essere fruibile a tutti oppure è una predisposizione naturale?
A me viene spontaneo cambiare sempre. All’inizio devi fare i conti con quello che è disponibile, quindi se hai un produttore di pellicce tendi ad andare in quella corsia. Il cambiamento è un po’ dettato dalle circostanze ma è sempre stata una mia peculiarità. Oggi, purtroppo, funziona seguire un percorso, perpetuato per risultare riconoscibile e a me questo non viene naturale. Dopo la mia prima sfilata optical, ho cambiato totalmente la collezione successiva. È un rischio che voglio correre perché altrimenti mi annoierei e non avrebbero senso tutte le tribolazioni che vivo.
Pensi ad una collezione uomo?
Non mi sento ancora pronto per fare abiti da uomo. Ho bisogno prima di liberare i decenni di fantasie accumulate sugli abiti da donna. Poi non sono particolarmente attento alla moda maschile. Piuttosto sarei orientato verso una collezione di accessori.
Grazie
Antonio P.