Devo assolutamente ricordarmi che non ho più l’età per passare notti a trovare una posizione impossibile tra il bracciolo e la portiera dell’auto parcheggiata in una piazzola di servizio. Devo ammettere che le aree di servizio (rest area) sono molto ben tenute, bagni puliti e con tutto disponibile, mappe ad ogni parete, macchinette automatiche che dispensano qualunque snack tu possa sognare, e in molti casi anche la guardia notturna che vigila sulla sicurezza dei moltissimi veicoli parcheggiati per passare la notte.
Come al solito il piacere di svegliarsi con le luci dell’alba mettono in secondo piano tutti i dolori sparsi sul corpo ed è subito un buon giorno! Solo il tempo di sgranchirmi le gambe e di nuovo giro la chiave della macchina ormai totalmente impolverata e trasformata in una seconda casa dalle cartacce di cibo e dai bicchieri di polistirolo vuoti in tutti gli scomparti.
La strada 93 comincia ad arrampicarsi tra rocce e lunghe curve che trasformano in poco tempo la strada in un lento serpentone di auto e di immensi autotreni, poi ad un tratto si apre uno spettacolo fuori dal comune, la strada svolta e scende verso la Hoover Dam, la diga immensa che imprigiona il fiume Colorado e che in questo modo permette a tutte le luci, le fontane, i condizionatori e le slot machine di Las Vegas di potersi accendere. A lato della diga stanno costruendo un ponte sospeso per bypassare la diga ma per mia fortuna oggi ci si passa ancora sopra in auto. Parcheggio all’inizio della diga, dopo l’11 settembre qui vige un controllo capillare di tutti coloro che si avvicinano, quindi in mezzo a alcuni military e dopo aver passato il metal detector entro nell’ufficio turistico in cui tra magneti e ricordi di ogni genere mi spiegano quanti milioni di metri cubi d’acqua, quanti metri di montagne e soprattutto quanti km di canyon hanno distrutto per far nascere la metropoli del gioco d’azzardo! Rimango senza fiato guardando di sotto e mi faccio mille domande su come abbiano fatto a costruirla, su quanto cemento, quante vite e quanta fatica, tutto spiegato dalle guide che io ovviamente evito di leggere.
Riaccendo la macchina e mi muovo con un leggero languorino, non ho ancora fatto colazione e questo non è normale!
Entro in Arizona con la testa già alla prossima tappa, Kingman è il primo paese che si incontra percorrendo la highway in questa direzione, il sole ormai è alto e la strada ora torna ad essere un infinito rettilineo di questo altopiano poco fantasioso se non fosse per quei magnifici cespugli che come nei film degli indiani attraversano di tanto in tanto la mia strada. Nostalgia di casa e sull’mp3, che non posso dimenticare mai, comincio a cercare fino ad imbattermi in una vecchia canzone dei Ricchi e Poveri, e visto che non mi vede nessuno, la canto pure a squarciagola.
Kingman è esattamente come ti aspetti: un paesino di frontiera in mezzo al nulla, una strada principale, qualche fastfood, negozietti di souvenir e poco altro finchè poi non si incrocia un cartello, Route 66. Non è una strada, ma è la strada, o come la chiamano qui la “mother road” la strada madre, un mito, percorre gli stati uniti dal miglio 1 di Chicago sulle rive del lago Michigan per finire sul molo di Santa Monica in California, ha visto passare ogni generazione, dalla corsa all’ora fino agli hippies, per passare dal sogno Californiano alle grandi fabbriche. Cartelli che rievocano questo mito ovunque, souveniers, vecchie cartoline, e poi di fronte un dinner: esattamente come l’avrei voluto, un ristorante in stile anni 50, con cromature e colori pastello, il mio languorino è ormai una fame da “colazione dei campioni”, quindi hamburger e patatine mangiate ascoltando dal jukebox un Chuck Berry d’annata.
Caffè comprato dal mio solito fornitore di caffeina e con la mattina che mi porta il sole di fronte mi muovo ancora su questo noioso rettilineo per altri 150 miglia fino ad incrociare Williams per poi svoltare sulla US64 e continuare diritto fino alla mia meta. Dopo aver pagato l’ingresso al parco, 25$, (ci potevo pagare la camera dell’hotel a LasVegas e non avere tutta la schiena incriccata) percorro ancora qualche miglio e parcheggio in mezzo a decine di enormi camper e di moto ordinate, cammino qualche metro mi fermo contro la staccionata di legno e rimango pietrificato. Eccolo qui, il Grand Canyon. Silenzio intorno e una sensazione di totale impotenza. Non ci sono molte cose che al mondo lasciano questa sensazione.
Uno spettacolo della natura unico, una ferita nella terra, colori rosso fuoco misti a macchie e striature di mille tonalità per poi scorgere in uno spaccato di roccia il colore verde vivo del Colorado River il vero artista che ha scolpito questo capolavoro in millenni di erosione. Mi siedo e rimango immobile per molti minuti. Il south rim è il percorso sud del parco che si snoda in Arizona per molte e molte miglia, il canyon si estende per quasi 350 km e lo spettacolo diventa monotono dopo il secondo punto di osservazione! Quindi nonostante i soldi spesi faccio una sosta in una storica Indian Tower, dove è possibile ammirare il canyon in un suggestivo punto e dove ci sono i soliti souvenirs e i soliti turisti sovrappeso che commentano i gusti delle caramelle gommose.
Riprendo la strada che mi riporta verso la vita e raggiungo in un paio d’orette Flagstaff, ormai è sera e la città si presenta splendidamente con le sue case di mattoni ben pulite, le sue vie del centro che si incrociano in viali alberati con insegne in stile e con la vecchia linea della ferrovia del Grand Canyon che la attraversa tutta, persone di ogni età che camminano per il centro molto vivo e molto piacevole, parcheggio e mi unisco al rito del tardo pomeriggio di una birretta bevuta seduto in un birrificio artigianale la Beaver Street Brewery, commento con il barista le previsioni del tempo e mi racconta della splendida stagione invernale appena conclusa, così scopro anche che questa città è famosa per il suo comprensorio sciistico, e io che ho sempre pensato che il Grand Canyon fosse una sorta di deserto da cavalcare inseguendo la mandria di mucche con il sole a picco e la terra arida, invece nevica, e non poco del resto mi fa notare il birraio qui intorno le cime raggiungono i 3000 metri e lo stesso parco è a quasi mille metri sul livello del mare, fossi arrivato 1 mese prima avrei dovuto montare le catene!
Mi congedo dopo aver sgranocchiato una tonnellata di noccioline e consumato dalle miglia e dalla stanchezza di una notte accartocciato sul sedile posteriore dell’auto, trovo un motel con l’insegna al neon “route66” non posso non prendere la camera qui! Mi infilo nella stanza e svengo senza nemmeno infilarmi sotto le coperte.
Manuel T.